martedì 24 luglio 2012

CHIMICO-FARMACEUTICO: PRONTA LA PIATTAFORMA UNITARIA PER IL RINNOVO DEL CONTRATTO DI LAVORO 2013-2015


L'Assemblea nazionale dei quadri  e delegati  Filctem-Cgil, Femca-Cisl, UilcemUil – riunita a Roma l'11 luglio – ha varato  la piattaforma  per il rinnovo  del contratto   nazionale   di  lavoro  2013-2015   per  gli  oltre  190.000  addetti dell'industria  chimico-farmaceutica,  in  scadenza   il  31  dicembre   2012,  che sarà  immediatamente  presentata  alle  associazioni  imprenditoriali  di
Confindustria  (Federchimica  e  Farmindustria)  per  iniziare   rapidamente  le trattative.



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Le ambizioni tradite della riforma Fornero


Il governo si prefiggeva a parole obiettivi importanti, ma poi ha proseguito nell'opera di normalizzare il precariato iniziata nel 2003. Più che una riforma ordinaria, servirebbe un piano straordinario 
di Patrizio Di Nicola*
Le ambizioni tradite della riforma Fornero (foto di Attilio Cristini) (immagini di (foto di Attilio Cristini))
Entra in vigore il 18 luglio (almeno per alcune parti) la legge 92/2012, la riforma del mercato del lavoro fortemente voluta dal governo tecnico in carica. Si tratta, va ricordato, della terza di una serie di interventi che dovevano essere strutturali e risolutivi, ma che si inseguono, modificandosi, da tre lustri: il “Pacchetto Treu” (legge n. 196 del 1997), la “Legge Biagi” (legge n. 30 del 2003), e ora la “Riforma Fornero”. 


Nel presente articolo chi scrive cercherà di ragionare attorno alla riforma da un punto di vista puramente sociologico, tenendo quindi conto degli effetti che essa potrà avere sui soggetti coinvolti (i lavoratori, ma anche le imprese) e del rapporto tra utilità ed efficienza sociale della nuova normativa. Per far ciò non analizzeremo punto per punto l’articolato: a questo si sono dedicati esimi giuristi, contribuendo non poco a mettere in risalto i punti deboli, anche sotto il profilo della tecnica legislativa e della procedura processuale. Il nostro approfondimento, invece, si limiterà allo studio del primo comma dell’articolo 1 della norma, che riassume lo scopo della legge, quindi la filosofia (e a volte l’ideologia) che la anima. Ciò sarà indispensabile per capire se gli obiettivi fissati sono stati o meno raggiunti. 



Si inizi con il dire che la legge è molto ambiziosa, in quanto vuole “realizzare un mercato del lavoro inclusivo e dinamico, in grado di contribuire alla creazione di occupazione, in quantità e qualità, alla crescita sociale ed economica e alla riduzione permanente del tasso di disoccupazione” (comma 1, primo capoverso). Nessuno può essere contrario a tali obiettivi: tutte le riforme che si sono succedute erano intese ad allargare la partecipazione al lavoro (l’Italia, tra i paesi Ue, è quello con i tassi di attività più bassi), ridurre la disoccupazione giovanile (che oggi, come ai tempi del “Pacchetto Treu”, e nonostante le varie riforme, supera ancora il 30%), aumentare le possibilità di reimpiego dei lavoratori adulti che hanno perso il posto di lavoro. 



Quest’ultima condizione, in particolare, diviene cruciale per ottenere una riforma che incida davvero: se un cinquantenne rimasto disoccupato non riesce a trovare un lavoro in un tempo ragionevole non potrà che essere assistito dal sistema del welfare.Reimpiegare un adulto è difficile per tre cause congiunte: l’interesse delle imprese a sostituire i lavoratori dipendenti più anziani con precari giovani, scolarizzati e meno costosi; l’incapacità dei Centri per l’impiego pubblici che, troppo burocratizzati, non riescono a divenire efficienti canali di ingresso nel lavoro; il mancato interesse al tema dei lavoratori anziani da parte delle agenzie di collocamento private, che assecondano le richieste di mercato, e quindi si concentrano sui giovani, una “merce” più facile da gestire.



Quanto sopra evidenzia la prima forte contraddizione della riforma: da una parte essa invoca una maggiore dinamicità del lavoro, dall’altra non fa nulla per migliorare le strutture che operano sul mercato. Al contempo stringe i cordoni della borsa, e la nuova indennità di disoccupazione (l’Aspi) erogherà contributi di minor importo e per un minor tempo. In pratica, la nuova legge lascerà presto i disoccupati al loro destino. È un comportamento che si può leggere perfettamente alla luce delle ideologie neo-liberiste: chi rimane disoccupato ha una buona parte di colpe (poteva essere più disponibile verso l’azienda, ad esempio) e se in 12 mesi (18 per i più anziani) non trova un altro impiego, se ne deve concludere che non si impegna abbastanza per lavorare. Per stimolarlo meglio bisogna ridurgli l’indennità di disoccupazione come fa la legge. Con un siffatto pungolo, come insegnano i paesi anglosassoni, sarà meno selettivo nella ricerca di lavoro. 



Ma in che modo la legge vuole raggiungere i propri alti scopi? Anzitutto “favorendo l’instaurazione di rapporti di lavoro più stabili e ribadendo il rilievo prioritario del lavoro subordinato a tempo indeterminato, cosiddetto ‘contratto dominante’, quale forma comune di rapporto di lavoro”. Obiettivo condivisibile, ma oggettivamente non raggiunto, in quanto da una parte la legge non sfoltisce le tipologie contrattuali previste dalla riforma precedente, dall’altra rende più facile, tramite la revisione dell’articolo 18 dello Statuto del lavoratori, il licenziamento. 



Risulta sinceramente difficile a chi scrive capire il nesso logico tra maggiore stabilità dell’impiego e crescita economica, forme contrattuali a termine, estensione dei voucher per il lavoro accessorio e licenziamenti. La parte di normativa su questi ultimi, tra l’altro, ha scontentato anche gli imprenditori. Per i capi azienda la necessità era chiara: possibilità di licenziare chiunque senza stare troppo a giustificare i motivi (il caso Fiat fa scuola), pagando un “fee d’uscita” per evitare cause giudiziarie lunghe e incerte nell’esito. 








La legge, invece, demanda ancora più decisioni al giudice – creando peraltro un discreto caos: si pensi al concetto di “causa di licenziamento manifestamente insussistente” che diverrà argomento di tesi per le prossime generazioni di studenti di diritto del lavoro. Per venire incontro alla necessità di definire le controversie in un tempo ragionevole la legge introduce un rito “Speedy Gonzales”, che dovrebbe garantire il completamento di una causa, dalla prima udienza al ricorso in Cassazione, in sei mesi o poco più. Ma, sinceramente, come ci si può credere? I tribunali, per correre a tale velocità, avrebbero bisogno di nuovo personale e tecnologie, proprio mentre il governo con la spending review (meglio però ribattezzarla cutting review, visto che taglia soltanto, mentre una seria revisione avrebbe dovuto incidere sull’efficienza e l’efficacia della macchina statale) ha appena deciso la chiusura di quasi mille uffici giudiziari.



Per quanto riguarda i precari, invece, la legge ha completamente travisato il principio, affermato da più parti negli ultimi anni, che “il lavoro flessibile” deve costare di più di quello stabile. Chi ha portato avanti tale posizione – tra cui lo scrivente – intendeva sostenere che a questi lavoratori andava assicurata, proprio in virtù della precarietà del rapporto di lavoro, almeno una retribuzione migliore, così di attivare una sorta di scambio se non virtuoso, almeno non troppo penoso. L’intervento della riforma, invece, tende ad aumentare il costo del lavoro, non le retribuzioni, che invece ne potrebbero uscire ulteriormente ridotte. 



L’aumento dell’aliquota previdenziale per i parasubordinati, che raggiungerà in pochi anni il 33% del reddito (24% per i pensionati), specialmente in un periodo di crisi economica, sarà “girato” da molte aziende in capo ai lavoratori, annullando gli eventuali guadagni dovuti all’aumento derivante dalla fissazione – questa una vera nota positiva – della retribuzione minima, che si applica però solo ai collaboratori a progetto e non anche ai co.co.co che operano nella pubblica amministrazione e alle altre tipologie di precari. Un’ultima incongruenza va segnalata per i titolari di partita Iva: in questo caso la lotta all’abuso, che consiste nel far aprire forzosamente una posizione Iva a persone che svolgono lavori da dipendenti, viene condotta con armi spuntate. 



La norma prevede la conversione in contratti a progetto di tutti i rapporti che abbiano almeno due delle seguenti caratteristiche: durata del rapporto superiore a 8 mesi; postazione di lavoro presso l’azienda; 80% del reddito annuale percepito da una sola azienda. Ma tali regole si applicano solo se il professionista non ha “competenze teoriche di grado elevato” (non è un laureato? un diplomato?) o guadagni meno di 18 mila euro lordi l’anno. Che considerando Iva, previdenza e tasse diventano 800 euro mensili, un po’ poco per considerare il lavoratore, anche se giovane, un vero professionista. Sull’altro versante, invece, i veri lavoratori autonomi non potranno che lamentarsi, in quanto l’aumento contributivo al 33% li renderà i professionisti che pagano la maggiore aliquota in Italia e ottengono le minore tutele previdenziali. 



In conclusione, ci pare di poter dire che la nuova legge costituisce una mera conferma del processo di “normalizzazione della precarizzazione” del lavoro iniziato nel 2003. Senza neanche rappresentare un significativo passo avanti anche in questo senso. In piena sincerità, il fatto che non sia piaciuta né alle parti sociali né ai partiti che pure l’hanno votata (seppur giurando al proprio elettorato di modificarla appena possibile), non vuol dire, come ha affermato il professor Monti in un’intervista americana, che si muova su di una linea di equilibrio, ma semplicemente che è inutile. 



O quasi: se si voleva uno “scalpo” da gettare sul tavolo degli inutili summit europei in risposta alla lettera della Bce inviata al governo Berlusconi ad agosto, lo si è ottenuto. A che costi, lo sapremo solo quando, a primavera del prossimo anno. il nuovo governo eletto – qualsiasi sia il suo colore politico – la modificherà. Intanto in Italia si continuerà ad aver bisogno, più che di una riforma ordinaria, di un piano straordinario che rilanci l’attualità del lavoro come valore. L’identità che nasce dal lavoro è certamente parziale, ma non è obsoleta e il lavoro deve tornare a costituire un elemento fondamentale per la creazione di senso del futuro. In fin dei conti è solo tramite il riconoscimento di sé come lavoratori che le persone – giovani e anziani senza contrasti generazionali – possono riappropriarsi della cittadinanza attiva in una società che valorizza competenze e merito.



(* docente di Sociologia dell’organizzazione Università La Sapienza di Roma)


FONTE: Rassegna.it 
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giovedì 19 luglio 2012

Aggiornamento Indennità Trasporto

Pubblichiamo l'aggiornamento dell'indennità di trasporto (valido a partire dal mese di Luglio 2012) a seguito dell'aumento delle tariffe Cotral, così come previsto dall'accordo vigente.





(clicca sulle immagini per ingrandirle)


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